Il Gran Zebrù, montagna di 3857 m s.l.m. nel gruppo Ortles-Cevedale, situata esattamente sul confine tra la Valtellina e il Tirolo, ha due nomi che si affiancano nella cartografia ufficiale, uno insubre, poi adottato anche in italiano (Gran Zebrù) e uno tedesco (Königsspitze, che significa cima del Re).
La frase che da il titolo a questa piccola nota è tatuata ormai nella mia testa da quanto ho iniziato a frequentare in modo serio ed impegnativo la montagna. Da tempo guardo e riguardo video che raccontano imprese alpinistiche terminate nella gloria ed anche nella tragedia, perché purtroppo a volte può andare molto male, e basta davvero poco. Credo comunque che tutto questo abbia solo che alimentato la mia voglia di salire, sia con il corpo ma soprattutto con la testa.
Scalare certe vette, soprattutto in determinate condizioni atmosferiche, comporta sicuramente uno sforzo fisico molto impegnativo; al tempo stesso stesso credo che l’impegno mentale sia incalcolabile, non puoi permetterti di perdere mai la concentrazione su quello che stai facendo sia mentre stai salendo ma soprattutto mentre stai scendendo. Una volta arrivato in vetta non sei realmente arrivato, sei solo a metà, perché devi ancora portare la pelle a casa, e molte volte il fattaccio accade proprio mentre stai scendendo, perché un pochino (inevitabilmente) la mente si rilassa. Torniamo così alla citazione che fa titolo “Raggiungere la cima è facoltativo, tornare indietro è obbligatorio. (Ed Viesturs)”
Questa è la mia prima esperienza alpinistica e ovviamente non potevo farla con l’amico Francesco e sempre ovviamente non poteva che essere un lungo viaggio. Botta di culo ha voluto che il super camperino del Claudio e della Manu fosse libero così da poter partire il martedì pomeriggio dopo il lavoro.
Scorrerò molto veloce la prima parte, quella del viaggio, del lunghissimo viaggio sotto la pioggia. Quella pioggia costante, non troppo forte, che assieme alle curve del passo Gavia cullava i miei pensieri. Ero preoccupato…?!? Non troppo (per il momento ahahah), ero pensieroso certamente che sì. La prima volta, in fondo, non si scorda mai.
Ad un certo punto nel silenzio più totale esclamo un improvviso: “Porca troia la sacca dell’acqua….!!!” Ebbene si, mi ero dimenticato la sacca dell’acqua da mettere nello zaino al posto delle borracce. “Che sarà mai…?!? Userai una bottiglia…” mi dice Francesco. Aveva perfettamente ragione, una sacca dell’acqua non avrebbe pregiudicato l’ascesa alla Grande Zebra, solo che nella mia testa da ossessivo compulsivo per l’ordine stavo facendo la lista di tutto quello che mi sarebbe servito. La sacca non c’era ed in qualche modo la cosa mi aveva destabilizzato i piani, so che potrebbe sembrare una stupidata, ma quando uno è abituato ad avere tutto organizzato basta un piccolo cambiamento per sbandare un attimo. No problem, bottiglia dell’acqua c’è e quindi siamo a bolla.
In montagna l’imprevisto è dietro l’angolo e bisogna essere sempre pronti a parare il colpo.
Da buoni italiani “trasgrediamo la legge per gli ultimi chilometri” ed arriviamo con il camper sino al Rifugio Forni; trasgrediamo perché ad un certo punto della strada si può proseguire solo in macchina, ma ma ma essendo martedì ed avendo sentito il rifugista abbiamo proseguito per parcheggiare a fianco della struttura. Se non avessimo potuto fare così, il viaggio sarebbe stato ancora mooooooolto più lungo. Birretta pre-cena al rifugio come gesto di ringraziamento, chiediamo due info sul meteo del giorno dopo e poi acqua sul gas per una super pasta con il ragù della mamma di France. Terminata la birretta che ha accompagnato la cena arriva il momento dello zaino, rapido assemblaggio perché volevamo cercare di dormire un pochino, perché direte voi…?!?
Perché…tre…due…uno…no un passo indietro senza uno…alle due e qualcosa è suonata la sveglia. La maledetta sveglia. Quasi ancora nel sacco a pelo la prima cosa che abbiamo fatto è stata aprire il portellone, alzare gli occhi al cielo e vedere un mare di stelle in cielo. “Cazzo se è limpido…cazzo dai che c’è bel tempo….!!!”, ecco la prima cosa che ho pensato e sperato. Se, al suonare della sveglia ero un pochino agitato, alla vista delle stelle stavo già meglio. In ogni caso bocca dello stomaco chiusa e a mala pena sono riuscito a bere una tazza di tè e a mangiare qualche misero biscotto (“tanto ho le barrette nello zaino se mi viene fame mentre salgo” ricordatevi questa frase…!!!).
Buona, camper chiuso, zaino in spalla e si parte. Abbiamo da segnavia 1 ora e 50 minuti per arrivare il Rifugio Pizzini e poi da lì inizia quasi l’avventura. Camminare al buio non mi ha mai creato problemi, forse perché l’ho sempre fatto in trekking che avevo già percorso durante il giorno e mi basta una volta per memorizzare i passaggi chiave. Qui invece era proprio tutto nuovo. Durante la salita ci fanno compagnia le vacche al pascolo ed il suono dei loro campanacci, siamo quasi al Pizzini quando il buio inizia a far spazio alla luce. Eccolo che si intravede, anzi si vede, dritto davanti a noi, circondato da qualche nuvola. Intravediamo anche in lontananza delle lucine frontali ai piedi del ghiacciaio. “Dai non siamo gli unici matti”, penso dentro di me.
Percorriamo la lunghissima morena antistante la lingua del ghiacciaio. Anche qui siamo accompagnati dal suono dell’acqua che scorre sotto i nostri piedi ed ogni tanto da qualche ciottolone che ruzzola dopo il nostro passaggio. Siamo alla base ghiacciaio, zaino a terra e montiamo le gomme chiodate (i ramponi ahahaha), imbrago e corda in vita e non dimentichiamoci delle care amiche piccozze. È proprio vero quando si dice che il meteo in montagna cambia rapidamente, nel giro di poco infatti scende una fitta nebbia che ci nasconde la luce delle altre frontali davanti a noi. Anzi più che davanti a noi, erano alla nostra sinistra, tantè che pensavamo volessero fare la via a Nord – Ovest (complimentoni ai ragazzi perché molto più tosta). Scopriremo solo dopo che avevano sbagliato strada causa nebbia. Mentre percorriamo il ghiacciaio intravediamo a sprazzi la vetta con la sua croce, è sopra la nostra testa, come se stesse controllando la vallata sotto di lei.
Girato l’angolo ecco la prima sfida, il primo canalone. La parte iniziale era per lo più neve, poi abbiamo incontrato anche qualche roccia. In fondo eravamo un pochino al limite con la stagione perché il caldo pomeridiano stava lasciando il segno. Comunque comunque cazzo se era bella la neve, sentire il rampone e le piccozze che si piantano divinamente era una nuova e piacevole sensazione. Purtroppo terminato il primo canalone, troviamo una situazione completamente diversa. Quella che durante il viaggio era pioggia, qui è stata neve. Sorpresa delle sorprese, un leggero spessore di neve fresca era pronta per essere calpestata. Così fresca, che, con una pendenza quasi del 55%, non tutti i passi ti portavano avanti.
Ovviamente se sotto i piedi la situazione era un pochino instabile, il cielo non poteva che dire la sua, e l’immagine di sinistra mostra quelle che erano le condizioni di visibilità accompagnate da una leggera brezza d’alta quota. Lo ammeto, in quel momento credo di essermi metaforicamente tolto il casco e di aver spento l’interruttore. La testa era out, in compenso lo stomaco gridava a squarciagola “FAME…FAME”. No problema….tanto ho le barrette…!!!! ahahahaha col cazzo le barrette…!!! Avete presente (perché sono sicuro che l’avete fatto tutti) quando da piccoli e meno piccoli si infilavano in bocca 2 o 3 big babol e dopo pochi minuti la mandibola è completamente andata a ramengo…?!?
Ecco, due morsi alla mia favolosa barretta cioccolatosa che tanto desideravo e facevo fatica anche a parlare. Quindi, ciao barretta e ciao fame. Anzi ciao fame no, perché quella rimaneva ed aumentava. Da stronzi aumentava la fame e sembrava aumentasse anche il vento in modo proporzionale. Pace, zaino di nuovo in spalla, passo dopo passo ho voluto ancora provare a salire, in fondo il gps diceva che eravamo a quota 3400 – 3500, quindi dentro di me riecheggiava la frase: “DAI..DAI..CHE NON MANCA TANTO…!!!”
Decidiamo così di proseguire a fatica (per me), perché non ero più sicuro e sereno come lo ero all’inizio, in testa avevo anche un’ altra frase che riecheggiava: “NICOLA RICORDËT CHE TA GHÉT DE TURNÁ ENDRÉ…NICOLA RICORDATI CHE DEVI TORNARE INDIETRO…” e, vista la pendenza dei due tratti appena fatti, non potevamo che scendere culo a valle e faccia alla montagna, che non è poi una cosa così simpatica ed agile.
Purtroppo non ci trovavamo in un punto spettacolare per accamparci e decidere cosa fare. Sapevo perfettamente che la vetta si trovava poco sopra la nostra testa ma ahimè non si vedeva nulla e questa situazione non aiutava molto la mia testolina. Fisicamente non stavo male, non soffrivo la quota né tantomeno il freddo, certo ero un pò stanco per la neve fresca trovata poco prima che mi aveva fatto fare sforzi non necessari. La stanchezza che avvertivo era davvero stanchezza fisica…era fame…o semplicemente stanchezza mentale per la nuova ed insolita condizione…?!? Bella domanda….!!! Guardo allora Francesco legato 10m circa davanti a me, anzi sopra di me e penso: “Dai Nicola, è vero che è ripido, ma prendila come una scala: piolo dopo piolo, passo dopo passo andiamo e si sale…!!!”. Faccio allora un bel respiro, bevo un goccio d’acqua e riparto. Ritorno ad avere una bella sensazione nonostante il meteo, il rampone mi fa sentire bello stabile, le picche idem, ottimo…andiamo avanti. Arriviamo a quota 3650 m circa e sorpresa delle sorprese…non vediamo più le tracce dei giorni scorsi, ovviamente la fastidiosa nebbia non ci da tregua nemmeno un attimo. Anche Francesco era incerto sulla direzione da prendere, diamo così un’occhiata al gps che indicativamente ci dice di andare a destra lungo un favoloso traverso, avremmo poi trovato la cresta finale con la baracca della grande guerra e la vetta sarebbe stata propio davanti ai nostri occhi. Anche se non ce ne eravamo resi conto del tutto, eravamo fermi da “troppo tempo” e, per quanto fossi anche ben coperto, iniziavo a sentire freddo. Dovevamo decidere cosa fare. Niente…out…testa spenta…avevo troppa paura di non riuscire a scendere in sicurezza.
Con un mix di rammarico, tristezza ed anche rabbia guardo Francesco sopra di me e gli dico che non me la sentivo più di proseguire. “Nessun problema Nico, tanto non avremmo nemmeno la soddisfazione di vedere il panorama dalla vetta, e poi la montagna non si sposta da qui.” Queste furono le parole di Francesco che in qualche modo mi resero un pochino più tranquillo, perché in fondo mi dispiaceva non arrivare in vetta. Volere o non volere, mettiamo la retro ed iniziamo a scendere. Mentre cammino all’indietro su quella parete mi rendo conto di quanto sia importante mantenere la concentrazione anche in quei momenti, anzi soprattutto in quei momenti. Che tu sia inebriato dall’aver raggiunto la vetta o che tu abbia un nodo in gola perché Lei era lì davanti, non importa: la tua vita e quella del tuo compagno di cordata sono appese giusto giusto a 30 metri di corda, 2 braccia (magari infreddolite), 4 piccozze, 4 scarponi ramponati (magari con le gambette non più così fresche come all’inizio), ma soprattutto sono appese alla tua “testa” ed alla tua capacità di mantenere l’autocontrollo.
Passo dopo passo, piolo dopo piolo…questa volta al contrario…scendiamo con tutta la tranquillità del mondo ed ogni tanto tra una picconata e l’atra ho la possibilità (nuvole permettendo) di guardi attorno. Non ero mai salito sino a quel momento oltre una certa quota. Ovviamente l’amore per la montagna mi fa solo che pensare al lato positivo delle cose…come mi sarei sentito in vetta…?! come avrei respirato…?! e come mi sentirei ancora più in alto…?! Dai Nicola basta fantasticare e continua a scendere che la strada è ancora lunga. Senza troppa fatica arriviamo fino alla lingua del ghiacciaio, l’unico fastidio…?!? il caldo….!!!! arrivati in fondo basta nuvola, basta vento ed un bel sole…come cambiano le condizioni in pochi metri. Vista la levataccia e la fame reciproca decidiamo, una volta tolte le ferraglie di dosso, di sederci e di mangiarci una bella focaccia imbottita. Cazzo se ci voleva….!!! Mentre mangiamo non potevamo che guardare la vetta davanti a noi, era lì limpida, pulita da ogni nuvola. Ecco che mi si chiude nuovamente lo stomaco dalla rabbia; magari se avessimo aspettato un attimo sarebbe migliorato il cielo in quota e saremmo arrivati in vetta. Tempo di dare il secondo morso e mandare giù il boccone ecco di nuovo tutto nuvolo e la vetta sparisce tra le nuvole. Basta, mi metto il cuore in pace, oggi non era quel giorno.
Recuperate le forze e acclimatati alla nuova temperatura iniziamo la lunga discesa verso il Rifugio Pizzini e poi vero il camper che non vi sto qui a raccontare. Unico pensiero in quel momento…?!? togliermi gli scarponi….!!!
Chiudo solo con una “banale” e “scontata” riflessione perché mi rendo conto di esser andato troppo per le lunghe. Durante i trekking con Alex o con amici mi è capitato di sentirmi stanco o dolorante perché magari avevamo sottovalutato l’escursione, ma in qualche modo e con qualche pausa di troppo siamo tornati a casa, magari col buio, ma ci siamo arrivati. Quando invece fai qualcosa di più, qualcosa di più tecnico, di più alpinistico non puoi permetterti di fare sbaglia, non puoi permetterti di sottovalutare la montagna. In questi casi, lei non sa se sei esperto o meno, è sempre lei che comanda. Potrai magari avere una botta di culo, ma non puoi sempre giocarti il jolly, ed in palio il montepremi è davvero alto.
Detto questo non posso davvero chiudere e lo faccio con una frase dell’Alpinista per eccellenza, Walter Bonatti:
“La montagna mi ha insegnato a non barare, a essere onesto con me stesso e con quello che facevo. Se praticata in un certo modo è una scuola indubbiamente dura, a volte anche crudele, però sincera come non accade sempre nel quotidiano.” (Walter Bonatti)
DETTAGLI TREKKING: https://www.komoot.com/tour/38322538
Grande Nic,ho sognato con te😌
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L’ha ribloggato su Pina Chidichimo.
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